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Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (Aula Paolo VI, 2-27 Ott 2024) - 1a Congregazione generale (2 Ott 2024)
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Cari fratelli e sorelle,

Da quando la Chiesa di Dio è stata “convocata in Sinodo”, nell’ottobre 2021, abbiamo percorso assieme una parte del lungo cammino al quale Dio Padre chiama da sempre il suo popolo, inviandolo tra tutte le genti a portare il lieto annuncio che Gesù Cristo è la nostra pace (Efesini 2,14) e confermandolo nella missione con il Santo Spirito.

Questa Assemblea, guidata dallo Spirito Santo, che “piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch’è sviato”, dovrà offrire il suo contributo perché si realizzi una Chiesa sinodale in missione, che sappia uscire da sé stessa e abitare le periferie geografiche ed esistenziali avendo cura di stabilire legami con tutti in Cristo nostro Fratello e Signore.

C’è un testo di un autore spirituale del IV secolo [1] che potrebbe riassumere cosa avviene quando lo Spirito Santo è messo nella condizione di operare a partire dal Battesimo che genera tutti in eguale dignità.

Le esperienze che descrive ci permettono di riconoscere quanto è avvenuto in questi tre anni, e quanto potrà ancora avvenire.

La riflessione di questo autore spirituale ci aiuta a comprendere che lo Spirito Santo è guida sicura, e nostro primo compito è imparare a distinguere la sua voce, perché Egli parla in tutti e in tutte le cose e questo processo sinodale ce ne ha fatto fare esperienza.

Lo Spirito Santo ci accompagna sempre.

È consolazione nella tristezza e nel pianto, soprattutto quando– proprio per l’amore che nutriamo per l’umanità – di fronte alle cose che non vanno bene, alle ingiustizie che prevalgono, all’ostinazione con cui ci opponiamo a rispondere con il bene di fronte al male, alla fatica di perdonare, all’assenza di coraggio nel cercare la pace, siamo presi dallo sconforto, ci sembra che non ci sia più niente da fare e ci consegniamo alla disperazione.

Così come la speranza è la virtù più umile ma più forte, la disperazione è il peggio, più forte.

Lo Spirito Santo asciuga le lacrime e consola perché comunica la speranza di Dio.

Dio non si stanca, perché il Suo amore non si stanca.

Lo Spirito Santo penetra in quella parte di noi che spesso è tanto simile alle aule dei tribunali, dove mettiamo gli imputati alla sbarra e formuliamo i nostri giudizi, per lo più di condanna.

Proprio questo autore, nella sua omelia, ci dice che lo Spirito Santo accende in quanti lo ricevono un fuoco, il «fuoco di tanta gioia e amore, che se fosse possibile prenderebbero nel loro cuore tutti, buoni e cattivi, senza distinzione alcuna».

Questo perché Dio accoglie tutti, sempre, non dimentichiamo: tutti, tutti, tutti e sempre, e a tutti offre nuove possibilità di vita, fino all’ultimo momento.

È per questo che noi dobbiamo perdonare tutti e sempre, consapevoli che la disposizione a perdonare nasce dell’esperienza di essere stati perdonati.

Soltanto uno può non perdonare: colui che non è stato perdonato.

Ieri, durante la veglia penitenziale abbiamo fatto questa esperienza.

Abbiamo chiesto perdono, abbiamo riconosciuto di essere peccatori.

Abbiamo messo da parte l’orgoglio, ci siamo distaccati dalla presunzione di sentirci migliori degli altri.

Siamo diventati più umili?

Anche l’umiltà è dono dello Spirito Santo: dobbiamo chiederlo.

L’umiltà, come dice l’etimologia della parola, ci restituisce alla terra, all’humus, e ci ricorda l’origine, dove senza il soffio del Creatore saremmo rimasti fango senza vita.

L’umiltà ci permette di guardare il mondo riconoscendo di non essere meglio degli altri.

Come dice san Paolo: «Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,16).

E non si può essere umili senza amore.

I cristiani dovrebbero essere come quelle donne descritte da Dante Alighieri in un sonetto, donne che hanno il dolore nel cuore per la perdita del padre della loro amica Beatrice: «Voi che portate la sembianza umile, con gli occhi bassi, mostrando dolore» (Vita Nuova, XXII, 9).

Questa è l’umiltà solidale e compassionevole, di chi si sente fratello e sorella di tutti, patendo lo stesso dolore, e riconoscendo nelle ferite e nelle piaghe di ognuno, le ferite e le piaghe di nostro Signore.

Vi invito a meditare in preghiera su questo bel testo spirituale e a riconoscere che la Chiesa - semper reformanda - non può camminare e rinnovarsi senza lo Spirito Santo e le sue sorprese; senza lasciarsi modellare dalle mani del Dio creatore, del Figlio, Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, come ci insegna Sant’Ireneo di Lione (Contro le eresie, IV, 20, 1).

Infatti, da quando, in principio, Dio trasse dalla terra l’uomo e la donna; da quando Dio chiamò Abramo a essere benedizione per tutti i popoli della terra e chiamò Mosè a condurre attraverso il deserto un popolo liberato dalla schiavitù; da quando la Vergine Maria accolse la Parola che la rese Madre del Figlio di Dio secondo la carne e Madre di ogni discepolo e di ogni discepola di suo Figlio; da quando il Signore Gesù, crocifisso e risorto, effuse il suo Santo Spirito nella Pentecoste: da allora siamo in cammino, come dei “misericordiati”, verso il pieno e definitivo compimento dell’amore del Padre.

E non dimentichiamo quella parola: siamo misericordiati.

Conosciamo la bellezza e la fatica del cammino.

Lo percorriamo assieme, come popolo che, anche in questo tempo, è segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (LG 1).

Lo percorriamo con e per ogni uomo e ogni donna di buona volontà, in ciascuno dei quali lavora invisibilmente la grazia (GS 22).

Lo percorriamo convinti dell’essenza relazionale della Chiesa, vigilando affinché le relazioni che ci sono donate e che sono affidate alla nostra responsabilità e alla nostra creatività siano sempre manifestazione della gratuità della misericordia.

Un sedicente cristiano che non entri nella gratuità e nella misericordia di Dio, è semplicemente un ateo travestito da cristiano.

La misericordia di Dio ci fa affidabili e responsabili.

Sorelle, fratelli, percorriamo questo cammino sapendo di essere chiamati a riflettere la luce del nostro sole, che è Cristo, come pallida luna che assume fedelmente e gioiosamente la missione di essere per il mondo sacramento di quella luce, che non brilla da noi stessi.

La XVI Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, giunta ora alla Seconda Sessione, sta rappresentando in modo originale questo “camminare insieme” del popolo di Dio.

L’ispirazione colta da Papa San Paolo VI, quando nel 1965 ha istituito il Sinodo dei Vescovi, si è rivelata assai feconda.

Nei sessant’anni da allora trascorsi abbiamo imparato a riconoscere nel Sinodo dei Vescovi un soggetto plurale e sinfonico capace di sostenere il cammino e la missione della Chiesa cattolica, aiutando in modo efficace il Vescovo di Roma nel suo servizio alla comunione di tutte le Chiese e della Chiesa tutta.

San Paolo VI era ben consapevole che «questo Sinodo, come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato» (Apostolica Sollicitudo).

La Costituzione apostolica Episcopalis communio ha inteso far tesoro dell’esperienza delle diverse Assemblee sinodali (ordinarie, straordinarie, speciali), configurando in modo esplicito l’Assemblea sinodale come processo e non solo come evento.

Il processo sinodale è anche un processo di apprendimento, nel corso del quale la Chiesa impara a conoscere meglio sé stessa e a individuare le forme di azione pastorale più adeguate alla missione che il suo Signore le affida.

Questo processo di apprendimento coinvolge anche le forme di esercizio del ministero dei pastori, in particolare dei vescovi.

Quando ho deciso di convocare come membri a pieno titolo di questa XVI Assemblea anche un numero significativo di laici e consacrati (uomini e donne), diaconi e presbiteri, sviluppando quanto già in parte previsto per le precedenti Assemblee, l’ho fatto in coerenza con la comprensione dell’esercizio del ministero episcopale espressa dal Concilio Ecumenico Vaticano II: il Vescovo, principio e fondamento visibile di unità della Chiesa particolare, non può vivere il proprio servizio se non nel Popolo di Dio, con il Popolo di Dio, precedendo, stando in mezzo, e seguendo la porzione del Popolo di Dio che gli è stata affidata.

Questa comprensione inclusiva del ministero episcopale chiede di essere manifestata e resa riconoscibile evitando due pericoli: il primo, l’astrattezza che dimentica la concretezza fertile dei luoghi e delle relazioni, e il valore di ogni persona; il secondo pericolo è quello di spezzare la comunione contrapponendo gerarchia a fedeli laici.

Non si tratta certo di sostituire l’una con gli altri, eccitati dal grido: adesso tocca a noi! No, questo non va: “adesso tocca a noi laici”, “adesso tocca a noi preti”, no, non va questo.

Ci è chiesto invece di esercitarci insieme in un’arte sinfonica, in una composizione che tutti accomuna nel servizio alla misericordia di Dio, secondo i differenti ministeri e carismi che il vescovo ha il compito di riconoscere e promuovere.

Camminare insieme, tutti, tutti, tutti è un processo nel quale la Chiesa, docile all’azione dello Spirito Santo, sensibile nell’intercettare i segni dei tempi (Gaudium et spes, 4), si rinnova continuamente e perfeziona la sua sacramentalità, per essere testimone credibile della missione a cui è chiamata, per radunare tutti i popoli della terra nell’unico popolo atteso alla fine, quando Dio stesso ci farà sedere al banchetto da Lui preparato (cfr Is 25,6-10).

La composizione di questa XVI Assemblea è quindi più che un fatto contingente.

Essa esprime una modalità di esercizio del ministero episcopale coerente con la Tradizione viva delle Chiese e con l’insegnamento del Concilio Vaticano II: mai il Vescovo, come ogni altro cristiano, può pensarsi “senza l’altro”.

Come nessuno si salva da solo, l’annuncio della salvezza ha bisogno di tutti, e che tutti siano ascoltati.

La presenza all’Assemblea del Sinodo dei Vescovi di membri che non sono Vescovi non fa venir meno la dimensione “episcopale” dell’Assemblea.

E questo lo dico per qualche tempesta di chiacchiericci che sono andati da una parte all’altra.

Meno ancora pone qualche limite o deroga all’autorità propria del singolo Vescovo e del Collegio Episcopale.

Essa piuttosto segnala la forma che è chiamato ad assumere l’esercizio dell’autorità episcopale in una Chiesa consapevole di essere costitutivamente relazionale e per questo sinodale.

La relazione con Cristo e tra tutti in Cristo – quelli che ci sono e quelli che ancora non ci sono ma che sono attesi dal Padre - realizza la sostanza e modella in ogni tempo la forma della Chiesa.

Si devono individuare, in tempi adeguati, diverse forme di esercizio “collegiale” e “sinodale” del ministero episcopale (nelle Chiese particolari, nei raggruppamenti di Chiese, nella Chiesa tutta), sempre rispettando il deposito della fede e la Tradizione viva, sempre rispondendo a quello che lo Spirito chiede alle Chiese in questo tempo particolare e nei diversi contesti in cui esse vivono.

E non dimentichiamo che lo Spirito è l’armonia.

Pensiamo a quella mattina di Pentecoste: era un disordine tremendo, ma Lui faceva l’armonia, in quel disordine.

Non dimentichiamo che Lui è proprio l’armonia: non è un’armonia sofisticata o intellettuale; è tutto, è un’armonia esistenziale.

È lo Spirito Santo a far sì che la Chiesa sia perennemente fedele al mandato del Signore Gesù Cristo e perennemente in ascolto della sua parola.

Lo Spirito guida i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,13).

Sta guidando anche noi, radunati nello Spirito Santo in questa Assemblea, per dare una risposta, dopo tre anni di cammino, alla domanda come essere Chiesa sinodale missionaria.

Io aggiungerei misericordiosa.

Con il cuore pieno di speranza e di gratitudine, consapevole del compito impegnativo che vi è affidato (e che ci è affidato), auguro a tutti di aprirsi con disponibilità all’azione dello Spirito Santo, nostra guida sicura, nostra consolazione.

Grazie. 

 __________________________________

[1] Cfr Macario Alessandrino, Om. 18, 7-11: PG 34, 639-642.

 

 

Celebrazione eucaristica per l’inaugurazione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo (2 Ott 2024)
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Oggi celebriamo la memoria liturgica dei Santi Angeli Custodi, e riapriamo la Sessione plenaria del Sinodo dei Vescovi.

In ascolto di ciò che la Parola di Dio ci suggerisce, potremmo allora prendere spunto da tre immagini per la nostra riflessione: la voce, il rifugio e il bambino.

Primo, la voce.

Nel cammino verso la Terra promessa, Dio raccomanda al popolo di ascoltare la “voce dell’angelo” che Lui ha mandato (cfr Es 23,20-22).

È un’immagine che ci tocca da vicino, perché anche il Sinodo è un cammino, in cui il Signore mette nelle nostre mani la storia, i sogni e le speranze di un grande Popolo: di sorelle e fratelli sparsi in ogni parte del mondo, animati dalla nostra stessa fede, mossi dallo stesso desiderio di santità, affinché con loro e per loro cerchiamo di comprendere quale via percorrere per giungere là dove Lui ci vuole portare.

Ma come possiamo, noi, metterci in ascolto della “voce dell’angelo”?

Una via è certamente quella di accostarci con rispetto e attenzione, nella preghiera e alla luce della Parola di Dio, a tutti i contributi raccolti in questi tre anni di lavoro, di condivisione, di confronto e di paziente sforzo di purificazione della mente e del cuore.

Si tratta, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare e comprendere le voci, cioè le idee, le attese, le proposte, per discernere insieme la voce di Dio che parla alla Chiesa (cfr Renato Corti, Quale prete?, Appunti inediti).

Come abbiamo più volte ricordato, la nostra non è un’assemblea parlamentare, ma un luogo di ascolto nella comunione, in cui, come dice San Gregorio Magno, ciò che qualcuno ha in sé parzialmente, è posseduto in modo completo in un altro e benché alcuni abbiano doni particolari, tutto appartiene ai fratelli nella “carità dello Spirito” (cfr Omelie sui Vangeli, XXXIV).

Perché ciò avvenga c’è una condizione: che ci liberiamo da quello che, in noi e tra noi, può impedire alla “carità dello Spirito” di creare armonia nella diversità.

Non è in grado di sentire la voce del Signore chi con arroganza presume e pretende di averne l’esclusiva (cfr Mc 9,38-39).

Ogni parola va accolta con gratitudine e con semplicità, per farsi eco di ciò che Dio ha donato a beneficio dei fratelli (cfr Mt 10,7-8).

Nel concreto, badiamo a non trasformare i nostri contributi in puntigli da difendere o agende da imporre, ma offriamoli come doni da condividere, pronti anche a sacrificare ciò che è particolare, se ciò può servire a far nascere insieme qualcosa di nuovo secondo il progetto di Dio.

Altrimenti finiremo per chiuderci in dialoghi tra sordi, dove ciascuno cerca di “tirare acqua al proprio mulino” senza ascoltare gli altri, e soprattutto senza ascoltare la voce del Signore.

Le soluzioni ai problemi da affrontare non le abbiamo noi, ma Lui (cfr Gv 14,6), e ricordiamoci che nel deserto non si scherza: se non si presta attenzione alla guida, presumendo di bastare a sé stessi, si può morire di fame e di sete, trascinando con sé anche gli altri.

Mettiamoci dunque in ascolto della voce di Dio e del suo angelo, se davvero vogliamo procedere sicuri nel nostro cammino al di là dei limiti e delle difficoltà (cfr Sal 23,4).

E questo ci porta alla seconda immagine: il rifugio.

Il simbolo è quello delle ali che custodiscono: «sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4).

Sono strumenti potenti le ali, capaci di sollevare un corpo da terra coi loro movimenti vigorosi.

Però, pur così forti, possono anche abbassarsi e raccogliersi, facendosi scudo e nido accogliente per i piccoli, bisognosi di calore e di protezione.

Questo è un simbolo di ciò che Dio fa per noi, ma è anche un modello da seguire, in particolare in questo momento assembleare.

Tra noi, cari fratelli e sorelle, ci sono molte persone forti, preparate, capaci di sollevarsi in alto con i movimenti vigorosi di riflessioni e intuizioni geniali.

Tutto ciò è una ricchezza, che ci stimola, ci spinge, ci costringe a volte a pensare in modo più aperto e ad andare avanti con decisione, come pure ci aiuta a rimanere saldi nella fede anche di fronte a sfide e difficoltà.

Il cuore aperto, il cuore in dialogo.

Non è dello Spirito del Signore un cuore chiuso nelle proprie convinzioni, questo non è del Signore.

È un dono l’aprirsi, un dono che va unito, a tempo opportuno, alla capacità di rilassare i muscoli e di chinarsi, per offrirsi gli uni agli altri come abbraccio accogliente e luogo di riparo: per essere, come diceva San Paolo VI, «una casa […] di fratelli, un’officina d’intensa attività, un cenacolo di ardente spiritualità» (Discorso al Consiglio di Presidenza della C.E.I., 9 maggio 1974).

Ciascuno, qui, si sentirà libero di esprimersi tanto più spontaneamente e liberamente, quanto più percepirà attorno a sé la presenza di amici che gli vogliono bene e che rispettano, apprezzano e desiderano ascoltare ciò che ha da dire.

E questa per noi non è solo una tecnica di “facilitazione” – è vero che nel Sinodo ci sono i “facilitatori”, ma questo è per aiutare ad andare avanti meglio –, non è solo una tecnica di facilitazione del dialogo o una dinamica di comunicazione di gruppo: abbracciare, proteggere e prendersi cura è infatti parte stessa dell’indole della Chiesa.

Abbracciare, proteggere e prendersi cura.

La Chiesa è per sua vocazione luogo ospitale di raccolta, dove «la carità collegiale esige una perfetta armonia, da cui risulta la sua forza morale, la sua bellezza spirituale, la sua esemplarità» (ivi).

Quella parola è molto importante, l’“armonia”.

Non c’è maggioranza, minoranza; questo può essere un primo passo.

Quello che importa, quello che è fondamentale è l’armonia, l’armonia che può fare solo lo Spirito Santo.

È il maestro dell’armonia, che con tante differenze è capace di creare una sola voce, con tante voci diverse.

Pensiamo alla mattina di Pentecoste, come lo Spirito ha creato quell’armonia nelle differenze.

La Chiesa ha bisogno di “luoghi pacifici e aperti”, da creare prima di tutto nei cuori, in cui ciascuno si senta accolto come figlio in braccio a sua madre (cfr Is 49,15; 66,13) e come bimbo sollevato alla guancia dal padre (cfr Os 11,4; Sal 103,13).

Ed eccoci così alla terza immagine: il bambino.

È Gesù stesso, nel Vangelo, a “metterlo nel mezzo”, a mostrarlo ai discepoli, invitandoli a convertirsi e a farsi piccoli come lui.

Loro gli avevano chiesto chi fosse il più grande nel regno dei cieli: Lui risponde incoraggiandoli a farsi piccoli come un bambino.

Ma non solo: aggiunge anche che accogliendo un bambino nel suo nome si accoglie Lui (cfr Mt 18,1-5).

E per noi questo paradosso è fondamentale.

Il Sinodo, data la sua importanza, in un certo senso ci chiede di essere “grandi” – nella mente, nel cuore, nelle vedute –, perché sono “grandi” e delicate le questioni da trattare, e ampi, universali gli scenari entro cui esse si collocano.

Ma proprio per questo non possiamo permetterci di staccare gli occhi dal bambino, che Gesù continua a mettere al centro delle nostre riunioni e dei nostri tavoli di lavoro, per ricordarci che l’unica via per essere “all’altezza” del compito che ci è affidato, è quella di abbassarci, di farci piccoli e di accoglierci a vicenda come tali, con umiltà.

Il più alto nella Chiesa è quello che si abbassa di più.

Ricordiamoci che è proprio facendosi piccolo che Dio ci «dimostra che cosa sia la vera grandezza, anzi, che cosa voglia dire essere Dio» (Benedetto XVI, Omelia nella Festa del Battesimo del Signore, 11 gennaio 2009).

Non a caso Gesù dice che gli angeli dei bambini «vedono sempre la faccia del Padre […] che è nei cieli» (Mt 18,10): che sono, cioè, come un “telescopio” dell’amore del Padre.

Fratelli e sorelle, riprendiamo questo cammino ecclesiale con uno sguardo rivolto al mondo, perché la comunità cristiana è sempre a servizio dell’umanità, per annunciare a tutti la gioia del Vangelo.

Ce n’è bisogno, soprattutto in quest’ora drammatica della nostra storia, mentre i venti della guerra e i fuochi della violenza continuano a sconvolgere interi popoli e Nazioni.

Per invocare dall’intercessione di Maria Santissima il dono della pace, domenica prossima mi recherò nella Basilica di Santa Maria Maggiore dove reciterò il santo Rosario e rivolgerò alla Vergine un’accorata supplica; se possibile, chiedo anche a voi, membri del Sinodo, di unirvi a me in quell’occasione.

E, il giorno dopo, 7 ottobre, chiedo a tutti di vivere una giornata di preghiera e di digiuno per la pace nel mondo.

Camminiamo insieme.

Mettiamoci in ascolto del Signore.

E lasciamoci condurre dalla brezza dello Spirito.

Alla Delegazione Ecumenica della Diocesi di Dresden-Meissen (Repubblica Federale di Germania) (2 Ott 2024)
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Guten Morgen!
Caro fratello Vescovo, caro Landesbischof,
Signora Ministro, Signor Sindaco,
cari fratelli e sorelle!

Di cuore vi do il mio benvenuto, e ringrazio il coro per il bellissimo canto, grazie!

Fare un pellegrinaggio vuol dire mettersi in cammino, di solito verso un santuario.

Questo cammino diventa simbolo del proprio percorso di vita e della grande meta finale, che è Dio stesso, come è bene espresso nel verso della versione tedesca del Te Deum che avete scelto come motto del vostro viaggio: „Auf dich hoffen wir allein!“, “In te solo noi speriamo!”.

Con il vostro pellegrinaggio, intendete – come avete scritto – “riscoprire insieme e per gli uomini del nostro tempo i tesori spirituali del pellegrinare”.

Sì, tutta la ricchezza della nostra fede è un dono, un dono di Dio che riceviamo non solo per noi stessi, ma sempre anche per gli altri, per le persone intorno a noi, compresi quelli che sembrano lontani dalla fede, che non hanno ancora sentito parlare di Cristo, o che pensano che non abbia nulla di importante da dire.

Mi sembra che la vita di molte persone oggi manchi del significato, della speranza e della gioia che il mondo non può dare.

Per questo vi esorto a condividere il significato, la speranza e la gioia della fede con tutti, con fiducia e umiltà.

La testimonianza personale e credibile è ciò che conta quando si trasmette la fede.

E come criterio di credibilità, il Signore stesso menziona l’unità dei suoi discepoli e chiede al Padre: “che tutti siano una cosa sola, perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21).

A nome della Chiesa, vi ringrazio per aver preso sul serio questa missione ecumenica di Gesù e per aver cercato di realizzarla con questo pellegrinaggio comune e, cosa altrettanto importante, nella vita di tutti i giorni.

Ho saputo che gran parte del vostro gruppo è composto da volontari.

Il mio ringraziamento speciale va a voi, perché il vostro servizio gratuito è una testimonianza particolarmente credibile!

E vorrei anche ringraziare voi, i “Dresdner Kapellknaben”, per la vostra speciale testimonianza.

L’arte in generale, ma la musica in particolare, è un linguaggio che viene compreso da tutti ed è in grado di interpellare, ispirare e risollevare le persone.

Alcune cose sono difficili da esprimere a parole, e questo vale soprattutto per il mistero divino, che va ben oltre i nostri pensieri e concetti.

Ecco perché nelle chiese abbiamo questo ricco simbolismo, che rende tangibile e concreto l’indicibile: le candele, l’incenso, l’arte e la musica! Grazie per il meraviglioso unisono, l’armonia che le molte voci trovano, e che ci ricorda l’opera dello Spirito Santo, che unisce i molti! Grazie per la vostra testimonianza!

Cari fratelli e sorelle, continuate a lavorare insieme e a testimoniare la speranza che è in voi (cfr 1 Pt 3,15).

Ricordate le immagini del sale della terra e della luce del mondo, del piccolo seme; la Bibbia è piena di questi esempi in cui qualcosa di piccolo e di poco conto può crescere in qualcosa di grande con la grazia di Dio, qualcosa di molto più grande e più bello di quanto noi umani avremmo potuto realizzare da soli, con le nostre forze.

Nell’ottobre 1989, ne avete avuto un’idea quando alcuni cristiani protestanti e cattolici a Dresda sono riusciti a confrontarsi con la polizia.

È stato come un miracolo che non sia stato sparato un solo colpo e che anche in altre città si sia aperta una strada pacifica che nessuno avrebbe pensato possibile e che alla fine ha portato al “miracolo” dell’unità tedesca.

Domani anche voi celebrerete questo evento a Roma.

Rivolgiamoci ora insieme in preghiera al nostro Padre celeste, con la preghiera che unisce tutti i cristiani.

Col Padre nostro chiediamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, per il nostro pellegrinaggio, al termine del quale la nostra grande speranza si realizzerà: la piena armonia nella comunione con Dio e tra di noi.

Preghiamo.

Unser Vater...

Gott segne Sie alle, der Vater, der Sohn und der Heilige Geist.

Und beten Sie für mich, diese Arbeit ist nicht einfach! Aber beten Sie für mich, nicht gegen mich!

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Una lettura e una omelia
Gi 3 Ott : Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 10,1-12.
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In quel tempo,  il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi.

Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede.

Non passate di casa in casa. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio». Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. Io vi dico che in quel giorno Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città ».

Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (Aula Paolo VI, 2-27 Ott 2024) - 1a Congregazione generale (2 Ott 2024)
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Cari fratelli e sorelle,

Da quando la Chiesa di Dio è stata “convocata in Sinodo”, nell’ottobre 2021, abbiamo percorso assieme una parte del lungo cammino al quale Dio Padre chiama da sempre il suo popolo, inviandolo tra tutte le genti a portare il lieto annuncio che Gesù Cristo è la nostra pace (Efesini 2,14) e confermandolo nella missione con il Santo Spirito.

Questa Assemblea, guidata dallo Spirito Santo, che “piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch’è sviato”, dovrà offrire il suo contributo perché si realizzi una Chiesa sinodale in missione, che sappia uscire da sé stessa e abitare le periferie geografiche ed esistenziali avendo cura di stabilire legami con tutti in Cristo nostro Fratello e Signore.

C’è un testo di un autore spirituale del IV secolo [1] che potrebbe riassumere cosa avviene quando lo Spirito Santo è messo nella condizione di operare a partire dal Battesimo che genera tutti in eguale dignità.

Le esperienze che descrive ci permettono di riconoscere quanto è avvenuto in questi tre anni, e quanto potrà ancora avvenire.

La riflessione di questo autore spirituale ci aiuta a comprendere che lo Spirito Santo è guida sicura, e nostro primo compito è imparare a distinguere la sua voce, perché Egli parla in tutti e in tutte le cose e questo processo sinodale ce ne ha fatto fare esperienza.

Lo Spirito Santo ci accompagna sempre.

È consolazione nella tristezza e nel pianto, soprattutto quando– proprio per l’amore che nutriamo per l’umanità – di fronte alle cose che non vanno bene, alle ingiustizie che prevalgono, all’ostinazione con cui ci opponiamo a rispondere con il bene di fronte al male, alla fatica di perdonare, all’assenza di coraggio nel cercare la pace, siamo presi dallo sconforto, ci sembra che non ci sia più niente da fare e ci consegniamo alla disperazione.

Così come la speranza è la virtù più umile ma più forte, la disperazione è il peggio, più forte.

Lo Spirito Santo asciuga le lacrime e consola perché comunica la speranza di Dio.

Dio non si stanca, perché il Suo amore non si stanca.

Lo Spirito Santo penetra in quella parte di noi che spesso è tanto simile alle aule dei tribunali, dove mettiamo gli imputati alla sbarra e formuliamo i nostri giudizi, per lo più di condanna.

Proprio questo autore, nella sua omelia, ci dice che lo Spirito Santo accende in quanti lo ricevono un fuoco, il «fuoco di tanta gioia e amore, che se fosse possibile prenderebbero nel loro cuore tutti, buoni e cattivi, senza distinzione alcuna».

Questo perché Dio accoglie tutti, sempre, non dimentichiamo: tutti, tutti, tutti e sempre, e a tutti offre nuove possibilità di vita, fino all’ultimo momento.

È per questo che noi dobbiamo perdonare tutti e sempre, consapevoli che la disposizione a perdonare nasce dell’esperienza di essere stati perdonati.

Soltanto uno può non perdonare: colui che non è stato perdonato.

Ieri, durante la veglia penitenziale abbiamo fatto questa esperienza.

Abbiamo chiesto perdono, abbiamo riconosciuto di essere peccatori.

Abbiamo messo da parte l’orgoglio, ci siamo distaccati dalla presunzione di sentirci migliori degli altri.

Siamo diventati più umili?

Anche l’umiltà è dono dello Spirito Santo: dobbiamo chiederlo.

L’umiltà, come dice l’etimologia della parola, ci restituisce alla terra, all’humus, e ci ricorda l’origine, dove senza il soffio del Creatore saremmo rimasti fango senza vita.

L’umiltà ci permette di guardare il mondo riconoscendo di non essere meglio degli altri.

Come dice san Paolo: «Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,16).

E non si può essere umili senza amore.

I cristiani dovrebbero essere come quelle donne descritte da Dante Alighieri in un sonetto, donne che hanno il dolore nel cuore per la perdita del padre della loro amica Beatrice: «Voi che portate la sembianza umile, con gli occhi bassi, mostrando dolore» (Vita Nuova, XXII, 9).

Questa è l’umiltà solidale e compassionevole, di chi si sente fratello e sorella di tutti, patendo lo stesso dolore, e riconoscendo nelle ferite e nelle piaghe di ognuno, le ferite e le piaghe di nostro Signore.

Vi invito a meditare in preghiera su questo bel testo spirituale e a riconoscere che la Chiesa - semper reformanda - non può camminare e rinnovarsi senza lo Spirito Santo e le sue sorprese; senza lasciarsi modellare dalle mani del Dio creatore, del Figlio, Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, come ci insegna Sant’Ireneo di Lione (Contro le eresie, IV, 20, 1).

Infatti, da quando, in principio, Dio trasse dalla terra l’uomo e la donna; da quando Dio chiamò Abramo a essere benedizione per tutti i popoli della terra e chiamò Mosè a condurre attraverso il deserto un popolo liberato dalla schiavitù; da quando la Vergine Maria accolse la Parola che la rese Madre del Figlio di Dio secondo la carne e Madre di ogni discepolo e di ogni discepola di suo Figlio; da quando il Signore Gesù, crocifisso e risorto, effuse il suo Santo Spirito nella Pentecoste: da allora siamo in cammino, come dei “misericordiati”, verso il pieno e definitivo compimento dell’amore del Padre.

E non dimentichiamo quella parola: siamo misericordiati.

Conosciamo la bellezza e la fatica del cammino.

Lo percorriamo assieme, come popolo che, anche in questo tempo, è segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (LG 1).

Lo percorriamo con e per ogni uomo e ogni donna di buona volontà, in ciascuno dei quali lavora invisibilmente la grazia (GS 22).

Lo percorriamo convinti dell’essenza relazionale della Chiesa, vigilando affinché le relazioni che ci sono donate e che sono affidate alla nostra responsabilità e alla nostra creatività siano sempre manifestazione della gratuità della misericordia.

Un sedicente cristiano che non entri nella gratuità e nella misericordia di Dio, è semplicemente un ateo travestito da cristiano.

La misericordia di Dio ci fa affidabili e responsabili.

Sorelle, fratelli, percorriamo questo cammino sapendo di essere chiamati a riflettere la luce del nostro sole, che è Cristo, come pallida luna che assume fedelmente e gioiosamente la missione di essere per il mondo sacramento di quella luce, che non brilla da noi stessi.

La XVI Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, giunta ora alla Seconda Sessione, sta rappresentando in modo originale questo “camminare insieme” del popolo di Dio.

L’ispirazione colta da Papa San Paolo VI, quando nel 1965 ha istituito il Sinodo dei Vescovi, si è rivelata assai feconda.

Nei sessant’anni da allora trascorsi abbiamo imparato a riconoscere nel Sinodo dei Vescovi un soggetto plurale e sinfonico capace di sostenere il cammino e la missione della Chiesa cattolica, aiutando in modo efficace il Vescovo di Roma nel suo servizio alla comunione di tutte le Chiese e della Chiesa tutta.

San Paolo VI era ben consapevole che «questo Sinodo, come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato» (Apostolica Sollicitudo).

La Costituzione apostolica Episcopalis communio ha inteso far tesoro dell’esperienza delle diverse Assemblee sinodali (ordinarie, straordinarie, speciali), configurando in modo esplicito l’Assemblea sinodale come processo e non solo come evento.

Il processo sinodale è anche un processo di apprendimento, nel corso del quale la Chiesa impara a conoscere meglio sé stessa e a individuare le forme di azione pastorale più adeguate alla missione che il suo Signore le affida.

Questo processo di apprendimento coinvolge anche le forme di esercizio del ministero dei pastori, in particolare dei vescovi.

Quando ho deciso di convocare come membri a pieno titolo di questa XVI Assemblea anche un numero significativo di laici e consacrati (uomini e donne), diaconi e presbiteri, sviluppando quanto già in parte previsto per le precedenti Assemblee, l’ho fatto in coerenza con la comprensione dell’esercizio del ministero episcopale espressa dal Concilio Ecumenico Vaticano II: il Vescovo, principio e fondamento visibile di unità della Chiesa particolare, non può vivere il proprio servizio se non nel Popolo di Dio, con il Popolo di Dio, precedendo, stando in mezzo, e seguendo la porzione del Popolo di Dio che gli è stata affidata.

Questa comprensione inclusiva del ministero episcopale chiede di essere manifestata e resa riconoscibile evitando due pericoli: il primo, l’astrattezza che dimentica la concretezza fertile dei luoghi e delle relazioni, e il valore di ogni persona; il secondo pericolo è quello di spezzare la comunione contrapponendo gerarchia a fedeli laici.

Non si tratta certo di sostituire l’una con gli altri, eccitati dal grido: adesso tocca a noi! No, questo non va: “adesso tocca a noi laici”, “adesso tocca a noi preti”, no, non va questo.

Ci è chiesto invece di esercitarci insieme in un’arte sinfonica, in una composizione che tutti accomuna nel servizio alla misericordia di Dio, secondo i differenti ministeri e carismi che il vescovo ha il compito di riconoscere e promuovere.

Camminare insieme, tutti, tutti, tutti è un processo nel quale la Chiesa, docile all’azione dello Spirito Santo, sensibile nell’intercettare i segni dei tempi (Gaudium et spes, 4), si rinnova continuamente e perfeziona la sua sacramentalità, per essere testimone credibile della missione a cui è chiamata, per radunare tutti i popoli della terra nell’unico popolo atteso alla fine, quando Dio stesso ci farà sedere al banchetto da Lui preparato (cfr Is 25,6-10).

La composizione di questa XVI Assemblea è quindi più che un fatto contingente.

Essa esprime una modalità di esercizio del ministero episcopale coerente con la Tradizione viva delle Chiese e con l’insegnamento del Concilio Vaticano II: mai il Vescovo, come ogni altro cristiano, può pensarsi “senza l’altro”.

Come nessuno si salva da solo, l’annuncio della salvezza ha bisogno di tutti, e che tutti siano ascoltati.

La presenza all’Assemblea del Sinodo dei Vescovi di membri che non sono Vescovi non fa venir meno la dimensione “episcopale” dell’Assemblea.

E questo lo dico per qualche tempesta di chiacchiericci che sono andati da una parte all’altra.

Meno ancora pone qualche limite o deroga all’autorità propria del singolo Vescovo e del Collegio Episcopale.

Essa piuttosto segnala la forma che è chiamato ad assumere l’esercizio dell’autorità episcopale in una Chiesa consapevole di essere costitutivamente relazionale e per questo sinodale.

La relazione con Cristo e tra tutti in Cristo – quelli che ci sono e quelli che ancora non ci sono ma che sono attesi dal Padre - realizza la sostanza e modella in ogni tempo la forma della Chiesa.

Si devono individuare, in tempi adeguati, diverse forme di esercizio “collegiale” e “sinodale” del ministero episcopale (nelle Chiese particolari, nei raggruppamenti di Chiese, nella Chiesa tutta), sempre rispettando il deposito della fede e la Tradizione viva, sempre rispondendo a quello che lo Spirito chiede alle Chiese in questo tempo particolare e nei diversi contesti in cui esse vivono.

E non dimentichiamo che lo Spirito è l’armonia.

Pensiamo a quella mattina di Pentecoste: era un disordine tremendo, ma Lui faceva l’armonia, in quel disordine.

Non dimentichiamo che Lui è proprio l’armonia: non è un’armonia sofisticata o intellettuale; è tutto, è un’armonia esistenziale.

È lo Spirito Santo a far sì che la Chiesa sia perennemente fedele al mandato del Signore Gesù Cristo e perennemente in ascolto della sua parola.

Lo Spirito guida i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,13).

Sta guidando anche noi, radunati nello Spirito Santo in questa Assemblea, per dare una risposta, dopo tre anni di cammino, alla domanda come essere Chiesa sinodale missionaria.

Io aggiungerei misericordiosa.

Con il cuore pieno di speranza e di gratitudine, consapevole del compito impegnativo che vi è affidato (e che ci è affidato), auguro a tutti di aprirsi con disponibilità all’azione dello Spirito Santo, nostra guida sicura, nostra consolazione.

Grazie. 

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[1] Cfr Macario Alessandrino, Om. 18, 7-11: PG 34, 639-642.

 

 

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